Esistono piuttosto delle condizioni di adozione e gestione delle diverse tecnologie, con specifiche vocazioni d’uso, ed a tali condizioni DeCo fa riferimento nell’analisi delle diverse possibili tecnologie adottabili, per permettere di:
Esistono piuttosto delle condizioni di adozione e gestione delle diverse tecnologie, con specifiche vocazioni d’uso, ed a tali condizioni DeCo fa riferimento nell’analisi delle diverse possibili tecnologie adottabili, per permettere di:
Per garantire quanto sopra, è evidentemente necessario fornire indicazioni sui “processi unitari”, ossia gli elementi che vanno a comporre un sistema operativo, descritti nei loro obiettivi e specificità, quali:
La componente organica dei rifiuti urbani rappresenta la frazione omogenea prevalente in peso, nonché la più problematica da gestire con i sistemi tradizionali di smaltimento, per gli impatti ambientali che genera. Gli impianti di trattamento biologico in genere consentono di trattare la componente organica dei rifiuti al fine di riciclarla sotto forma di fertilizzanti organici oppure di stabilizzarla al fine di ridurre gli impatti ambientali che si possono originare dal suo smaltimento definitivo in discarica.
Si delineano quindi due linee operative strategiche complementari che originano due distinti flussi di materiale organico:
Rammentiamo che nella gestione integrata dei rifiuti urbani occorre dare priorità all’avvio e consolidamento della raccolta differenziata, al fine di intercettare in purezza ed alla fonte la maggior quantità possibile di frazione organica presente. Occorre però tenere presente che la raccolta dell’organico non può raggiungere un’efficienza prossima all’unità, e ciò significa che una parte dell’organico non viene intercettato e separato, rimanendo quindi all’interno dei rifiuti indifferenziati da avviare allo smaltimento. E’ necessario quindi prevedere opportuni sistemi di separazione e trattamento di questa componente organica non differenziata al fine di ridurre il carico inquinante dei rifiuti da smaltire.
DeCo propone sia impianti finalizzati alla valorizzazione di biomasse selezionate da raccolta differenziata (compostaggio di qualità); sia impianti che permettano la gestione ed il trattamento del rifiuto indifferenziato.
Seguendo una classificazione merceologica dei rifiuti di derivazione urbana, per quanto riguarda i rifiuti organici in purezza, separati alla fonte tramite raccolta differenziata, si individuano le seguenti categorie (si faccia riferimento all’art. 16 del D.M. 5 Febbraio 1998) di materiali che possono essere sottoposti a trattamenti biologici:
Il compostaggio e la biostabilizzazione sono per definizione processi di tipo aerobico in cui le tecnologie di processo sono tesi a fornire al sistema principalmente:
In relazione ai criteri adottati per perseguire tali obiettivi possiamo distinguere tra “sistemi intensivi” ed “estensivi” di bioconversione aerobica; tale distinzione fa essenzialmente riferimento al grado di complessità tecnologica, alle condizioni gestionali, alla durata del processo, ed ai parametri unitari di consumo di area e di energia.
Per biomasse ad alta fermentescibilità (frazioni “umide” domestiche, scarti mercatali e della ristorazione collettiva, fanghi civili ed agro-industriali, ecc.) in miscelazione con percentuali più o meno elevate di materiali strutturali, quali gli scarti di manutenzione del verde.
Tendono a presentare la differenziazione processistica tra una fase attiva (con condizioni di trasformazione intensive e critiche, estremamente sensibili alle scelte tecnologiche ed alla loro ottimizzazione) e una di maturazione o “curing” (a basso livello di complessità tecnologica, simile ai sistemi “estensivi”). Compatibilmente con le esigenze tecnologiche, si tende ovviamente a contrarre al massimo la durata della fase attiva, in quanto comporta necessità di materiali, attrezzature, energia ed i costi a ciò conseguenti;
Per biomasse a basso coefficiente di degradabilità e di buona consistenza (residui ligno cellulosici: scarti della manutenzione del verde, cassette, pallets, ecc.) compostate senza aggiunta di matrici fermentescibili quali scarti alimentari, agroindustriali e fanghi.
Non presentano la differenziazione funzionale tra fase attiva e fase di maturazione, ma generalmente adottano un unico approccio processistico a basso grado di articolazione tecnologica; la tipologia più frequente è quella a macrocumulo su piazzale, aerato per diffusione e convezione naturale, con rivoltamenti radi per la ricostituzione dello stato poroso. Raramente questi sistemi sconfinano in forme di transizione verso i sistemi intensivi, con aumento della frequenza dei rivoltamenti o adozione dell’aerazione forzata.
Le ridotte caratteristiche odorigene dei materiali e le caratteristiche stesse del processo (che lasciando i materiali in gran parte indisturbati evita la massiccia liberazione dei composti odorigeni verso l’esterno), determinano la possibilità di condurre l’intero processo all’aperto.
La relativa semplicità della gestione processistica determina la possibilità di disaggregare le iniziative, decentrandole, con condivisione delle attrezzature specifiche (trituratori, vagli) tra più centri di compostaggio grazie a forme di associazione cooperativa od alla fornitura di servizi operativi specifici conto terzi.
Nei sistemi chiusi il processo viene condotto in spazi confinati (container, bioreattori) o in aree coperte e tamponate, (capannoni) con il duplice scopo di un migliore controllo delle condizioni processistiche (relativa indipendenza dalle condizioni meteoriche) ma soprattutto di una maggiore efficacia dei presidi ambientali (controllo, gestione, abbattimento degli effluenti odorigeni). In realtà tutti i sistemi tecnologici possono essere gestiti in ambiente chiuso, tuttavia per alcuni sistemi processistici (biocontainer, sili, biotamburi) il confinamento della biomassa e la definizione dei limiti fisici del processo sono connaturati alla natura stessa della tecnologia, mentre per altre (cumuli, andane, trincee dinamiche) la chiusura delle aree per la fase attiva è opzionale e generalmente legata alla necessità di controllare, gestire, annullare i potenziali impatti olfattivi
L’affidabilità ed efficacia dei sistemi aperti per la conduzione del processo ed il contenimento degli impatti dipende dalla sussistenza (meglio se in sinergia) di alcune condizioni di fondo:
bassa fermentescibilità delle matrici; elevata percentuale (es. maggiore del 70% p/p) di “bulking” lignocellulosico, che consente d’altronde l’adozione di sistemi “statici” di compostaggio evitando i rilasci massicci di effluenti odorigeni collegati alle movimentazioni;
L’adozione dei sistemi aperti può in realtà essere ipotizzata e prevista (consentendo il contenimento dei costi di investimento e gestione) nelle fasi successive a quella attiva del processo (fase di maturazione), in cui alla diminuzione della putrescibilità ed alla dinamica metabolica tipica dei processi di umificazione conseguono una diminuzione del potenziale odorigeno ed un minore consumo di ossigeno.
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Ad oggi a livello nazionale sono previste prescrizioni operative sul compostaggio solo a livello del Decr. Min. Amb. 5/2/98 sulle “procedure semplificate” in applicazione degli artt. 31 e 33 del Decreto “Ronchi”; in base al punto 16 All. 1, relativo appunto alle attività di recupero di scarti organici tramite compostaggio, gli impianti che trattano matrici fermentescibili quali fanghi, scarti alimentari e di trasformazione delle derrate (con l’eccezione dunque degli impianti che trattano solo scarti di manutenzione del verde ed altre matrici lignocellulosiche) devono essere dotati di sistemi di gestione al chiuso delle prime fasi di trasformazione e di tecnologie per il trattamento degli odori, indipendentemente da dimensioni operative e distanza dalle abitazioni. Queste prescrizioni generali – intese evidentemente a standardizzare in senso cautelativo le previsioni operative per gli impianti ammessi alle procedure semplificate – sono eccessivamente severe per molte delle situazioni operative in cui il potenziale odorigeno sarebbe trascurabile, a causa di basse capacità operative, localizzazioni defilate e/o specifici sistemi di processo (es. quelli di tipo statico). Va anche aggiunto che il Decreto non prevede né criteri di dimensionamento dei sistemi di presidio (solo il principio viene definito), né metodi di valutazione della loro efficacia. Questo può evidentemente portare a situazioni – invero frequenti – in cui l’installazione di sistemi di abbattimento degli odori con tempi di contatto insufficienti rispetta le condizioni prescrittive, ma non garantisce la prevenzione, né la gestione del problema. Allo stato attuale delle cose, comunque, va segnalato che le procedure di autorizzazione “normali” (le più utilizzate, sinora) non prevedono alcuna codificazione di aspetti prescrittivi relativi a gestione e trattamento delle arie odorigene (come d’altronde niente viene descritto per la gestione delle acque reflue, né per gli standard di processo). Le norme tecniche nazionali relative al compostaggio (D.C.I. 27/7/84 per il compostaggio di RU indifferenziato, L. 748/84 per il compost di qualità) non prevedono condizioni prescrittive su costruzione e gestione degli impianti e sistemi di presidio ambientale, dal momento che sono intese a regolare la sola qualità finale del prodotto ed i meccanismi tecnico-amministrativi di applicazione agronomica. Forse il Decreto Ministeriale sui trattamenti biologici in applicazione dell’art. 18 (“Competenze dello Stato”) del “Ronchi” potrà cominciare ad impostare il problema. Nelle bozze sinora circolate, vengono stabiliti alcuni criteri di principio quali:
prescrizioni semplificate per il compostaggio dei soli scarti verdi; ma anche per impianti che trattano materiali fermentescibili, se a basse potenzialità operative; questo approccio è maggiormente attinente alla articolazione della situazione territoriale italiana, che in molti comprensori collinari e montani non consegue quelle “masse critiche” operative che consentono la gestione di un sistema tecnologicamente complesso di abbattimento degli odori.